sabato 9 giugno 2012

“Una carità che non è mero sentimentalismo”

Chiara Lubich, fondatrice del movimento dei Focolari, ha parlato in un Congresso internazionale di medicina, che si è tenuto a Roma, presso l'Università del Sacro Cuore.
Amore e carità, come massima espressione non di sentimentalismo ma di concreto aiuto al prossimo, possono aiutare, anche in campo medico? Secondo la Lubich, sì. E come.
“La nostra esperienza ci dice che questi rapporti fraterni vissuti nella quotidianità della vita personale, familiare e professionale possono liberare risorse inaspettate.”
“Nascono relazioni nuove, piene di significato, - ha proseguito Chiara Lubich - che suscitano le più varie iniziative a beneficio del singolo e della comunità. E ciò vale anche per il delicato mondo della medicina. Il lavorare proprio in questo ambito dà, infatti, la possibilità di amare il prossimo in un crescendo di carità che va rivolta a tutti; una carità che non è mero sentimentalismo, ma concreto agire, sempre attento alle necessità del momento; una carità capace di instaurare con tutti un dialogo profondo che, se vissuto da più, genera comunione, unità.”
Vi proponiamo qui uno stralcio dell’intervento integrale della Fondatrice del Movimento dei Focolari.
“Quanto posso dire non nasce certamente da conoscenze mediche, ma dall'esperienza di oltre 60 anni in cui, sotto l'azione di uno speciale dono di Dio, riconosciuto come "carisma dell'unità", ho visto il comporsi di una comunità di persone, delle più varie provenienze, che hanno formato, in certo modo, un piccolo "popolo", vivente tra tutti i popoli della terra, ben caratterizzato per aver fatto dell'amore reciproco la legge fondamentale della propria vita, testimoniando così che è possibile stabilire interrelazioni che trovano nella reciprocità la loro massima espressione.
Ogni essere umano sente il bisogno di essere amato e di riversare sugli altri l'amore ricevuto. Siamo stati creati, infatti, in dono gli uni per gli altri e realizziamo questo nostro essere impegnandoci ad amare a nostra volta ogni uomo con quell’amore che viene prima di ogni risposta d’amore dell’altro. Quando, poi, questo amare per primi è vissuto insieme da due o più persone si ha l’amore vicendevole, un amore cioè capace di far sì che i rapporti tra le persone siano tali da superare ogni difficoltà, ogni ostacolo; un amore che porta a vedere l’altro come un altro se stesso, onde comprenderlo fino in fondo e aiutarlo concretamente; un amore capace di farci scoprire fratelli gli uni degli altri, quindi tutti protesi al bene della famiglia umana. In una parola, un amore che genera fraternità, innescando un processo di rinnovamento in ogni ambito della società.
La nostra esperienza ci dice che questi rapporti fraterni vissuti nella quotidianità della vita personale, familiare e professionale possono liberare risorse inaspettate. Nascono relazioni nuove, piene di significato, che suscitano le più varie iniziative a beneficio del singolo e della comunità. E ciò vale anche per il delicato mondo della medicina. Il lavorare proprio in questo ambito dà, infatti, la possibilità di amare il prossimo in un crescendo di carità che va rivolta a tutti; una carità che non è mero sentimentalismo, ma concreto agire, sempre attento alle necessità del momento; una carità capace di instaurare con tutti un dialogo profondo che, se vissuto da più, genera comunione, unità.
Ma come generare la comunione in un mondo spesso dominato dalla difficoltà dei rapporti, dalla logica del conflitto? Come realizzare l'unità, rendendola effettiva nel quotidiano? La potremo realizzare vivendo anche noi quel comandamento di Gesù che Egli stesso non ha esitato a definire “suo” e “nuovo”: “Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13,14; 15,12).
È proprio questo amore reciproco, vissuto sulla misura dell'amore di Gesù per noi, fino all’abbandono e alla morte sulla croce, che ci garantisce l'unità. Il suo abbandono è stato il vertice della sua passione, il culmine, la sintesi di tutti i suoi dolori, del corpo e dell'anima. È stato il dramma di un Dio che si sente abbandonato da Dio. È lì che Egli sperimenta la più abissale separazione che si possa pensare: prova, in certo modo, la divisione dal Padre suo con il quale è e resta uno.
Ma è proprio gridando in croce: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46; Mc 15,34) e rimettendosi nelle mani del Padre con un supremo atto d'amore, che Egli si fa “medicina” di ogni dolore dell’anima e sollievo di ogni dolore del corpo. È lì che Egli dona a tutti gli uomini l’unità con Dio e tra loro, divenendo così il modello del superamento di ogni disunità. Ed è perciò guardando a Lui, Gesù Abbandonato, che riusciamo a superare ogni difficoltà e a costruire rapporti di reciprocità, di unità gli uni con gli altri.
Auguro a ciascuno dei presenti di essere uomini e donne capaci di far nascere e crescere una medicina secondo il cuore di Dio e che questo Congresso sia di stimolo e impegno rinnovato nel lavorare per costruire rapporti veri di fraternità, così che l'impegno culturale sia supportato da una autentica esperienza di vita comunitaria.

1 commento:

  1. davvero ottimo questo articolo di Chiara Lubich. grazie! Ernesto

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